Confessioni di un istruttore
Come eravamo e come siamo nei nostri modi di andare in immersione. Una testimonianza di costume da consapevoli osservatori condita con un po’ di sana autoironia.
pubblicato il 17 Dicembre 2015 da Manrico Volpi. Foto apertura ripresa presso MAS Museo Attività Subacquee a Marina di Ravenna.

La giornata è ancora calda, il meteo mi ha offerto la possibilità di svolgere una splendida immersione nel mare limpido e ricco della costa livornese.
L’atmosfera del diving è sempre cordiale e allegra nella sua classica confusione organizzata, fatta di subacquei che si spostano con le loro attrezzature variegate e sempre all’ultimo grido sotto il profilo tecnologico.
Con un gruppo di amici molto giovani commento l’immersione appena fatta, evidenziando quello che abbiamo visto, quello che non abbiamo osservato e purtroppo anche quello che abbiamo visto, osservato ma non riconosciuto a causa della non completa conoscenza dell’ambiente subacqueo. La chiaccherata spazia nella materia subacquea e io – “vecchio” sub – e i giovani subacquei ci scambiamo esperienze divertenti e costruttive. Ad un tratto una ragazza del gruppo tira fuori dal suo zainetto un vecchio libro di subacquea che riconosco immediatamente dalla sua copertina raffigurante un sub in risalita nel blu. Vedendo la foto della copertina uno dei ragazzi incuriosito e divertito commenta l’immagine dicendo: “… guarda come andavano sott’acqua a quei tempi!”. Queste parole riecheggiano nella mia mente con il fragore di un boato, guardo sbigottito alla mia sinistra un mio collega coetaneo (Andrea Neri – ndr) e incrociando il suo sguardo penso dentro di me: “…Io sono di quei tempi …io andavo sott’acqua con quelle attrezzature …con quella metodologia… senza la tecnologia di ora!” Sorpreso di me stesso, scopro che – contrariamente alle mie aspettative – evito di controbattere scontatamente alla frase del giovane sub esaltando il fatto che “noi vecchi” andavamo in mare senza il jacket, con il bibo, con le mute umide e altre frasi con le quali i vecchi tediano di solito i nuovi subacquei, mentre nella mia testa avanza velocemente e drammaticamente un dubbio: “…ma ora sarei mai capace di scendere in immersione con le attrezzature che utilizzavo quaranta anni fa e che per decenni hanno fatto la differenza nelle preparazioni dei subacquei?”
Immediatamente, per farmi coraggio e ridurre l’angoscia, pongo la domanda al mio collega: restiamo perplessi, riguardiamo con doveroso rispetto la foto e i nostri ricordi vanno a quelle indimenticabili immersioni fatte di tante difficoltà antiche.
Si perchè parliamoci chiaro è comodissimo vestire la muta stagna che ti mantiene al caldo le ossa (specie se usurate) e i muscoli, poter trascorrere la deco senza dover controllare il tremito delle ginocchia e il battere dei denti per il freddo provocato dalle allora mute umide (la parola giusta sarebbe “bagnate”) piene di cerniere inutili, aperture e colletti alla coreana che facevano entrare fiumi di acqua gelata ecc.
Oltre ai problemi del freddo c’era anche quello della famigerata “pesata” che doveva consentire a un sub di restare sufficientemente negativo alla fine dell’immersione, con bibo in riserva, ai fatidici – 3 metri.

Questa condizione oggi è di facile raggiungimento con un jacket che garantisce uno sforzo minimo e grande comodità di vestibilità. Ripenso ai periodi in cui si divise il pensiero didattico tra coloro che erano favorevoli all’allora GAV (ricordo ancora i primi “anulari”) e chi invece sosteneva che l’attrezzo era pericoloso e inutile, ragion per cui risaliva dal fondo utilizzando la famosa busta di nylon.
L’immersione poi era un continuo controllo strumentale che faceva passare lo sguardo alternativamente dall’orologio al profondimetro (a lancetta), che ti induceva sempre a ricalcolare i tempi con l’ausilio delle tabelle di decompressione che si rompevano o si perdevano ad ogni immersione. C’è da aggiungere al riguardo che a quei tempi, inconsciamente, non si faceva molto caso alla velocità di risalita che era fissata dalla medicina subacquea del tempo alla velocità di 18 metri\minuto. Non esistevano ufficialmente extra deep stop, protocolli internazionali, procedure di risalita, velocità differenziate e di algoritmi neanche a parlarne… si risaliva quand’era l’ora e basta!
E quand’è che “era l’ora”? Quando l’erogatore cominciava a diventare duro! A quel punto dovevi tirare l’asta della riserva della bombola e venire su!
I più tecnologici utilizzavano il decompressimetro: una sorta di strumento che lasciava margini di errore enormi. Benvenuto al comodo computer, che da un lato appiattisce la formazione e il calcolo ma, dall’altro, rappresenta una grande fonte di informazioni, contenuti e garanzie sul monitoraggio e la sicurezza dell’immersione. Tutte queste cose vanno poi confrontate con le finalità e l’esecuzione delle immersioni di quei tempi, quando l’obiettivo primario era il raggiungimento del fondo per vedere o cacciare (allora si poteva) prede note e poi risalire nel blu pinneggiando forsennatamente onde vincere quella legge di gravità che ti teneva incollato al fondo e per poi lottare con quella idrostatica arrivando verso la superficie dove cercare di stopparsi in deco.
Soffermandomi su queste osservazioni e analizzando la mia attuale modernissima attrezzatura fatta di carbonio, kevlar, titanio, guardo il mio amico e collega e con una nota di amarezza gli confesso: “…no, non sarei più capace di immergermi con quelle attrezzature!” e mi avvio soddisfatto verso il gommone allestito ad hoc che mi aspetta per una piacevole immersione.
Di certo sembrerà una triste confessione per un vecchio istruttore ma tutti sanno anche che il bombolaro, come il pescatore, normalmente un po’ bugiardo lo è.

Fonte: serialdiver